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Francesco Antonio Saverio Grue

Nato a Castelli il 7 marzo 1686, figlio di Carlo Antonio Grue e della prima moglie Ippolita Pompei, Francesco Antonio Saverio Grue è considerato uno dei più eminenti artisti della maiolica castellana. Personalità eclettica dalla vita avventurosa e in parte romanzata, era stato destinato dal padre alla carriera ecclesiastica; fuggito dal seminario di Penne, fu iscritto ad Ascoli Piceno, dove studiò latino e metrica, componendo versi poi trascritti su alcune sue maioliche. Soggiornò a Napoli e per qualche tempo a Roma, per approfondire le sue conoscenze in Diritto Canonico. Nel 1705 era ad Urbino, dove conseguì la laurea in Filosofia e Teologia, come testimoniano alcune maioliche firmate col toponimo. Le lunghe assenze da Castelli, confermate dal testamento del padre Carlo Antonio, che detrasse 354 ducati dalla eredità a lui spettante, per averlo mantenuto agli studi, resero tesi i rapporti con il genitore che a tal proposito scrive: “un giorno… (mi) assalì in pubblica piazza delli Castelli con una sciabla suainata per uccider(mi), e se non erano gl’astanti, che v’accorsero, o (sarei) restato morto o acramente ferito”. Abbandonata Castelli, nel 1713 si trasferì a Bussi, nell’aquilano, dove stava fiorendo, anche grazie ad altri ceramisti castellani, l’arte della maiolica. Qui divenne governatore della cittadina ma soprattutto decoratore di maioliche, forse con l’intenzione di portare il nascente centro ceramico ad una fama che oscurasse quella di Castelli. Non a caso, ricorre la segnatura “Bussi” su molti suoi lavori di questo periodo, tra cui il grande piatto conservato nella Fondazione Paparella Treccia-Devlet, raffigurante nel cavo una scena biblica e decorato sulla tesa da putti svolazzanti tra festoni di fiori e foglie e un cartiglio con la scritta “Bussi 1714”. Poche sono le opere degli anni trascorsi in questo piccolo paese, di cui la più importante è costituita dal paliotto in mattonelle della chiesa di Sant’Angelo presso Lucoli, raffigurante le Storie di San Francesco Saverio, in cui il Grue già dimostra il proprio linguaggio pittorico e grande autonomia stilistica. Nel 1716, narrano le cronache, fu coinvolto in una rivolta a Castelli contro il feudatario che aveva imposto una tassa sulle maioliche e di conseguenza incarcerato a Napoli. Qui, liberato, aprì una bottega per la produzione di maiolica, in particolare vasellame da farmacia, ottenendo già all’epoca grande notorietà. Nel 1729 realizza vasi da farmacia per la certosa di San Martino, raffiguranti il santo certosino Bruno, desunto da incisioni di Krüger variate nell’ambientazione paesaggistica, e nel 1735 decora il corredo farmaceutico della spezieria napoletana di Carlo Mondelli, così citato nella Gazzetta di Napoli: “Carlo Mondelli…diede giovedì della passata settimana la visita alla sua speziaria, nella quale fu un indicibile concorso, anche de’ titolati, che goderono della veduta de’ vasi di essa dipinti dal celebre pennello del Dottor Francesco Antonio Grue delli Castelli di Abruzzo”. Grande merito ebbe nella decorazione, che, pur attinta dalle solite incisioni seicentesche, in particolare quelle dei francesi Perelle e di Stefano della Bella, veniva organizzata in composizioni armoniche e inedite, grazie anche alla sua formazione da pittore, che gli permise di utilizzare con maestria la cosiddetta “tavolozza castellana”, formata principalmente da cinque colori: verde, arancione, giallo, blu e manganese. I paesaggi, inizialmente vicini ai lavori del genitore, nelle opere più mature si riconoscono per il carattere delle figure e delle architetture, per la vibrante luminosità e, come scrive il Polidori, anche per “la impostazione della frasca dipanata contro il cielo prevalentemente in estensione, l’arabesco della fronda ai margini, lo scorcio del fogliame, visto frontalmente…reso con una sequenza di minutissime squame, simile ad un ricamo”. Conclusa la parentesi napoletana, il Grue tornò a Castelli con la moglie Candida Ruggeri, sposata nel 1730, e i loro tre figli, e aprì una sua bottega, continuando ad eseguire commissioni ecclesiastiche, come i vasi da farmacia per la Santa Casa di Loreto, come pure per la nobiltà napoletana. Morì nel 1746, con il desiderio mai esaudito di essere chiamato da Carlo III di Borbone a lavorare nella Real Fabbrica di Capodimonte.