Whatsapp Chat
Inviaci la tua richiesta via Whatsapp, ti ricontatteremo al più presto.

L’arte dei fondo oro

Usata ancora oggi nelle zone di influenza ortodossa soprattutto nella realizzazione di icone, la tecnica della pittura su fondo oro compare dapprima in ambito bizantino e successivamente nel XII secolo in Italia. Essa prevede la stesura sulla tavola a sfondo dei dipinti di sottili lamine d’oro, che artigiani specializzati detti battiloro ottenevano martellando monete d’oro da un ducato. Come descrive dettagliatamente all’inizio del XV secolo il fiorentino Cennino Cennini nel suo “Libro dell’Arte”, le foglie d’oro venivano “soffiate” sulla superficie, precedentemente stuccata e finita a bolo, e fissate con colle naturali, quali albume, miele, gomme e altre sostanze vegetali, e successivamente levigate con il brunitore, una sorta di pennello terminante con una pietra d’agata appiattita. Era questo un procedimento manuale complesso che, lontano dall’effetto metallico che potrebbe dare una lastra d’oro portata a lucido, conferiva alla tavola una rilucenza profonda e vibrante e alla composizione pittorica, per lo più sacra, un’aura di religiosità e mistero, atta a sancire il legame indissolubile tra arte e religione, proprio dell’epoca. La pittura assume significato non solo devozionale ma soprattutto simbolico, allude a valori trascendentali ed eterni, rimanda ad una realtà superiore da adorare. Il fondo oro nega ogni rapporto della rappresentazione pittorica con il mondo reale e la proietta su un piano metafisico: l’oro non è colore, ma simbolo di eterno, quella eternità che è alla base del messaggio cristiano che l’opera d’arte vuole trasmettere. Esso costituisce un supporto unico all’evento pittorico, in un gioco di luci assorbite e riflesse, che si associa a quello dei raggi che filtrano dalle vetrate delle navate gotiche. Da questo cielo metafisico emergono figure di  Madonne col Bambino in Trono, tema preminente nella dottrina cattolica del XIII secolo, Santi e Cherubini, che si stagliano in tutta la loro nitidezza e regalità. Si tratta di una  composizione preziosa e raffinata, rigorosamente ordinata in modo gerarchico, con la figura religiosa principale al centro sovradimensionata e maestosa rispetto alle altre figure posizionate ai lati, rappresentate in scala minore, allo scopo di ampliare il senso teologico della rappresentazione, che risulta arricchita e rafforzata, e di spingere lo spettatore in un moto ascendente che lo riporta ad essere un tutt’uno con il Padre. Sono immagini vibranti di luce quelle  dei polittici dei maestri del ‘200 e del ‘300, dove non c’è nulla che non risponda ad una interna perfezione, testimonianza tangibile del divino. Persino l’aspetto psicologico dei personaggi rappresentati è reso non tanto attraverso gli atteggiamenti o l’espressione dei volti, ma grazie all’uso sapiente del colore nel suo rapporto materico e vitale con la luminosità fissa e astratta del fondo oro. L’oro esalta le figure senza umanizzarle, le astrae dal contesto reale, isolandole nel tempo e nello spazio e le pone entro rigidi schemi fissi, quelli dei polittici appunto, annullando ogni consuetudine e ogni rapporto con la quotidianità: nessun paesaggio familiare, nessun edificio riconoscibile, nessun rapporto con il vissuto, ma solo la verità assoluta del Divino. E’ la poetica della luce che svela e rivela e tradotta in pittura, si fa materia visibile e tangibile, specchio dell’immateriale e del trascendente, principio di ogni bellezza.