La più antica testimonianza scritta relativa all’industria vetraria veneziana risale al 982¸quando in un atto di donazione compare il nome di un tale Dominicus “fiolario”, ovvero fabbricante di “fiole” o ampolle in vetro; a esso seguirono poi molti altri documenti, dall’anno mille in poi, che testimoniavano la presenza di fornaci per la lavorazione del vetro a Venezia prima e successivamente a Murano, quando la Repubblica di Venezia, nel 1291, per prevenire gli incendi in città, stabilì la distruzione di vetrerie costruite in città e ordinò ai vetrai di spostare le loro fonderie a Murano, dove le prime sorsero nel noto Rio dei Vetrai. Contrariamente a quanto normalmente accade, l’arte del vetro non sorge a Venezia in quanto luogo di produzione delle materie prime, ma per la facilità di importare le stesse da luoghi lontani, visto lo sviluppo e l’importanza dei commerci navali nella laguna. Si tratta quindi di un’arte che sorge con notevoli influenze esotiche e arabe e che con il passare degli anni evolve sempre più le proprie tecniche di lavorazione fino a diventare un’attività manifatturiera efficacemente organizzata. Significative in questo senso le innovazioni apportate nel 1450 da Angelo Barovier, uomo eclettico, vetraio da generazioni, allievo del filosofo alchimista marchigiano Paolo da Pergola; egli porterà nel corso degli anni a seguire, alla creazione di un vetro di elevata e incomparabile purezza, il “cristallino”, sotto lo stimolo e il patrocinio del Governo della Repubblica, che istituì riconoscimenti artistici e privilegi per i maestri che introducevano novità nella lavorazione del vetro, fino a garantirne, seppure per un periodo di tempo limitato, l’utilizzo esclusivo, anche per porre freno a una vera e propria forma di spionaggio industriale per rubare i segreti tra le varie fornaci. Ben presto i maestri muranesi costituirono una vera e propria nobiltà del vetro, la categoria di persone più in vista dell’isola, alla quale vennero conferiti da parte dello Stato veneziano importanti diritti civili, accompagnati però da severe sanzioni per chi si fosse recato a lavorare fuori Venezia. La produzione iniziale era costituita, oltre che dalle tessere musive, da oggetti per la maggior parte di carattere utilitario e seriale: “fyellae”, “buçae”, “angastare” erano le bottiglie da vino e da olio, con un cerchio azzurro e uno speciale bollo per le misure e “moçolli”, bicchieri di forme diverse a seconda della destinazione, ma sempre forme essenziali, generalmente prive di orpelli e decorazioni. L’avvento delle nuove tecnologie dà un forte impulso alla industria del vetro muranese che ben presto esporta i propri manufatti in tutta Europa e persino in Medio Oriente, dove da tempo era cessata la produzione locale; agli oggetti di uso comune si aggiungono quelli commissionati da importanti e nobili famiglie, che elencano nei propri inventari i “voirres faiz à Venice”, oggetti di straordinaria esecuzione destinati al decoro e all’abbellimento di ambienti. Ai vetri “cristallini”, che nelle forme sembrano imitare le argenterie dell’epoca, si aggiungono limpidissimi vetri colorati: il blu, il verde, il paonazzo, il rosso sangue e in ultimo un tipo di vetro “porcellano”, bianco opaco, comunemente detto vetro lattimo, che imita la preziosa porcellana cinese d’importazione, talvolta impreziositi da motivi miniati e ornamentali, dipinti a smalto e dorati. Al vetro che imita il cristallo, le gemme, il calcedonio e le porcellane si aggiunge ad opera della figlia di Angelo Barovier, Marietta, uno speciale tipo di vetro composto da canne con strati concentrici di diverso colore, paragonati ai presunti “murrini” dell’antichità, chiamati anche rosette o millefiori. Ma ancora una volta dopo aver perfezionato stili e tecniche, ciò che fa la differenza è l’uomo, con la sua esperienza, la sua abilità nel modellare il vetro incandescente, la sua genialità nell’inventare forme sempre nuove che esaltino le qualità di questo nobile materiale: duttilità e lucentezza, versatilità e purezza.